Da sempre la realtà giovanile provoca il mondo adulto, innescando riflessioni per le quali è necessario dedicare un tempo disteso di ascolto e di confronto. Lo è ancora di più se gli adulti in questione sono dei preti alle prese con le giovani generazioni di oggi: è una sfida nella sfida, continua, mai uguale a sé stessa e da non vivere certamente in solitaria se si vuole affrontarla efficacemente. La scorsa settimana, dal 13 al 15 febbraio, una quarantina di incaricati di pastorale giovanile della nostra diocesi, si sono presi del tempo per riflettere sul loro operato di pastori, ma soprattutto sul loro esserlo oggi accanto alle giovani generazioni: un vero e proprio laboratorio interattivo e intergenerazionale, per comprendere come la propria presenza sul campo possa essere maggiormente costruttiva per le giovani generazioni e le comunità cui il vescovo li ha assegnati.
I luoghi
Una prima questione emersa ha riguardato i principali luoghi del loro agire, in particolare l’oratorio. Mettendosi in ascolto il primo giorno di don Samuele Marelli, già direttore della Fondazione Oratori Milanesi e oggi incaricato di pastorale giovanile per le sei parrocchie delle città di Seregno, i nostri sacerdoti si sono lasciati provocare da due domande graffianti: “oggi l’oratorio può essere ancora uno strumento valido per l’educazione delle giovani generazioni?” e “che preti siamo chiamati ad essere dentro questa particolare esperienza?”. Che cosa ne è emerso? Sicuramente la conferma della bontà dello strumento a disposizione che, tuttavia, non può continuare a ripetersi: nel corso dei suoi due cinque secoli di vita, l’oratorio non è mai stato uguale a se stesso e si è sempre lasciato plasmare dalle esigenze della realtà, senza dimenticare le sue principali finalità. Oggi, al netto del riposizionamento cui l’oratorio è chiamato, per un prete accanto alle giovani generazioni dentro un oratorio, è inevitabile che il raggio di azione si ampli: non è più possibile immaginare che tutte le azioni di un oratorio siano solamente legate al suo prete di riferimento e al luogo cui il vescovo l’ha destinato. Per alcune iniziative, soprattutto quelle più formative e di confronto in vista del futuro, se si desidera imbastire una proposta di qualità, occorre allargare la rete delle relazioni e lo sguardo, oltre il proprio e singolo oratorio. “L’identità del prete - ha sottolineato don Samuele Marelli - è un tema cruciale. Noi pensiamo che più un sacerdote abbia da fare, più rischia di andare incontro al burnout, ma non è così: dipende dalla qualità di ciò che si fa. Oggi le relazioni non possono più essere legate ad una singola persona e ad un singolo spazio, ma ad una pluralità di persone e di luoghi. Io, ad esempio, sono responsabile di diverse figure, tra educatori professionali, religiose e volontari. Queste mi aiutano nei sei oratori che mi sono stati affidati. Grazie a loro riesco a raggiungere più destinatari che da solo. È come se delegassi loro alcune questioni perché sono loro ad essere in prima linea a costruire il legame con i più giovani, lo stesso legame per cui io mi spendo. Ciò che dà unità a tutto il mio ministero è la relazione con queste persone con cui condivido il mio servizio. Il tema del luogo non è più un problema perché, alzando lo sguardo oltre il proprio orticello, possono prevalere le relazioni che si sono costituite. E non è un problema nemmeno la quantità di ciò che ho da fare: se hai l’idea di una buona proposta e di una struttura organizzativa alla sua altezza, hai più tempo per le relazioni che ne risultano facilitate”.
Le relazioni
Andando oltre ai luoghi e alle quattro mura dell’oratorio, il prete di oggi è chiamato a rileggere il suo operato non solo dal punto di vista spaziale, ma anche in un’ottica di corresponsabilità, come ci ha ricordato don Paolo Arienti, già direttore della Federazione Oratori Cremonesi e oggi parroco di una unità pastorale del centro città. “Siamo chiamati ad essere corresponsabili e quindi sinodali in uno dei periodi più difficili per la Chiesa: questa però è forse l’ultima occasione che, come Chiesa, abbiamo per coinvolgere i laici e dare spazio agli adulti significativi delle nostre parrocchie. La sinodalità è il tentativo di dare realmente corpo alla comunione. Come preti abbiamo il compito di rileggere la nostra condizione di potere. Come lo esercitiamo? Se lo usiamo solo per stare in una posizione di comando sbagliamo e non riusciremo mai a rendere corresponsabile la comunità. Il potere è da esercitare per essere al servizio, proprio come ha fatto Gesù”. Un potere da giocare - ancora una volta - a favore delle relazioni e della responsabilità educativa: una leadership che per il prete è chiamata anche a diventare partnership. L’obiettivo infatti è quello di “essere fratelli” e quindi responsabili gli uni degli altri e per gli altri. Non un’operazione semplice, ma l’unica plausibile nella società odierna in cui la priorità pastorale risulta essere quella di “condividere i pensieri perché non siano solo i nostri occhi a vedere e rileggere la realtà”, come ha detto uno dei sacerdoti giovani presenti in un suo intervento.
I territori
Una costante che è emersa anche dalle testimonianze di quattro sacerdoti in quattro fasi diverse del loro ministero e che nel secondo giorno sono succedute alle due relazioni del primo giorno. Un prete novello, un curato al suo secondo incarico, un sacerdote al diciassettesimo anno in oratorio e uno appena divenuto parroco hanno riletto la loro esperienza di ministero e di pastorale nell’oggi. Insieme hanno ripercorso il loro servizio in cui - provocati dalla realtà - hanno provato a rispondere alle esigenze delle persone incontrate: prima come dei viaggiatori inesperti, ma appassionati, poi come dei veri “professionisti” e, infine, nel ruolo di padri. Tutte fasi di un cammino in cui si è chiamati a giocarsi in prima persona con la premura di evitare il rischio del protagonismo personale: “Sei provocato dalla realtà, ma la risposta è la convocazione: sono stato chiamato, ma convoco a mia volta degli altri per condividere lo sguardo sulla realtà”.
Un prete in cammino oggi ha di fronte a sé la sfida di rimanere a contatto con la vita reale. In modo da aderirci, impregnarsi e comprenderla a fondo per continuare a parlare del Vangelo in modo significativo per la vita e le storie delle persone. Anche quando l’evangelizzazione diventa sempre più legata all’occasionalità, occorre essere sempre fedeli ai principi dell’incarnazione e della risurrezione, che ci ricordano l’obbedienza fedele alla realtà, senza dimenticare l’orizzonte di senso cui siamo chiamati. In una complessità così grande, pensare di aver un mandato dall’alto specifico attraverso cui muoversi è difficile, ma alcune azioni possono “partire dal basso”, dalla fede e da come un sacerdote sceglie di giocare la propria vita nei chiari-scuri della quotidianità, delle relazioni e del potere. È letteralmente un cammino in cui sedersi e sentirsi arrivati non è più ammesso, ma in cui si può far spazio a un dono prezioso: compagni di viaggio che vivano con noi il cammino su un medesimo territorio. Il sogno della Chiesa di domani parte dal primo passo di oggi: la fraternità.