La fine dell’anno è, spesso, tempo di bilanci. Obiettivi raggiunti, buoni propositi andati in fumo, sbagli e buone azioni vengono messi sui piatti della bilancia: è una ricognizione che ci aiuta a riflettere, a guardarci dentro e a scendere in profondità. Per custodire uno sguardo oggettivo su ciò che è stato e per gettare le basi di un domani migliore. Il prossimo anno, inoltre, sarà un anno davvero speciale: l’Anno Santo del Giubileo. Ed è Papa Francesco stesso che, nel proclamarlo, ci ha fornito la prospettiva giusta con cui viverlo: da “pellegrini di speranza”.
Al mio secondo Natale da Direttore dell’Ufficio Pastorale dell’Età Evolutiva, dell’Ufficio Vocazioni e dell’Ufficio Tempi dello Spirito, sento questa parola di una attualità e verità straordinarie nella nostra Diocesi di Bergamo. In questo primo anno di servizio diocesano ho sentito crescere in me una grande speranza per il futuro della nostra Chiesa: quanto bene cresce nei nostri oratori e nei nostri giovani! Purtroppo come dice il vecchio adagio: “fa più rumore un albero che cade (un oratorio costretto a chiudere per qualche giorno, storie di devianza giovanili che finiscono sui giornali), che un’intera foresta che cresce (il lavoro silenzioso e gratuito di migliaia di volontari, centinaia di giovani che si trovano a pregare insieme)”. Forse dovremmo imparare a raccontarci meglio, a far emergere la speranza di cui trasudano le nostre comunità cristiane.
E poi dovremmo riscoprire quella grande virtù che da sempre va a braccetto con la speranza: la pazienza. Diceva un vecchio canto, a me molto caro, che ancora sento girare negli oratori, che “ogni ragazzo è una speranza, da curare con pazienza”. La speranza c’è e non è in discussione: ciò a cui è chiamato ciascuno di noi è a coltivare con pazienza. Non si resta con le mani in mano in attesa del compimento, ma ci si dà da fare perché questo si realizzi per tutti. Coltivare è un’azione che richiede fatica, costanza, quotidianità; precisione e misura, ma anche spreco e abbondanza; lasciar cadere la pioggia, ma pure offrire riparo agendo la cura nel modo opportuno. Educare è la continua ricerca di un sapiente equilibrio in cui ci si adatta al contesto, alle situazioni, al nostro essere e all’altro, che siamo chiamati ad amare.
Tutto questo, nei nostri oratori, accade quotidianamente. Da buoni bergamaschi possiamo dire che “rimboccarsi le maniche” è una caratteristica insita nel nostro DNA ed è un atteggiamento di cui andar fieri perché ogni giorno c’è qualcuno che coltiva la speranza, che si prende cura dei nostri ragazzi. L’augurio per questo Natale è prenderne consapevolezza, non abituarcene mai, e poi raccontarlo a tutti, anche a chi per motivi diversi fatica a riconoscerlo. Forse questo farà di noi veri pellegrini di speranza. Pellegrini non in cerca di speranza, ma capaci di seminare speranza passo dopo passo.
Coraggio, allora! Guardando al cammino percorso fin qui e alle nostre orme, possiamo dire che non siamo degli illusi a sperare ancora. E questa consapevolezza si fa gratitudine. Perché la speranza ha un volto: quello dei tanti volontari, educatori, sacerdoti che ogni giorno nei nostri oratori e nelle nostre comunità sperano, si mettono in gioco, si rimboccano le maniche con pazienza, prendendosi cura delle giovani generazioni. Il Vescovo Francesco, al convegno delle équipe educative dello scorso ottobre, ci ha ricordato come l’oratorio sia un’idea davvero straordinaria e irripetibile perché, proprio qui, il Vangelo si incarna nell’educazione. Siate dunque custodi consapevoli e convinti di questa intuizione irripetibile: mai gelosi e sempre pazienti coltivatori della speranza che cresce tra le righe della storia.
Buon Natale di speranza a tutti!