Oratori chiusi? Per essere sicuri di educare bene

La riflessione di don Gabriele Bonzi circa gli avvenimenti degli ultimi giorni relativi alla sicurezza degli oratori

“Gli oratori sono luoghi sicuri?”: me lo sono sentito chiedere più volte, soprattutto da parte delle famiglie dei bambini e dei preadolescenti che lo frequentano. Famiglie preoccupate da alcune notizie rimbalzate sui media di oratori in cui è stata fatta la scelta di chiudere momentaneamente i cancelli, come segnale forte in risposta ad eventi altrettanto forti. Una scelta che, va sottolineato per essere davvero oggettivi, è una eccezione straordinaria e una minoranza assoluta: si tratta di una percentuale molto ridotta di situazioni. Ad oggi, in Diocesi di Bergamo abbiamo 250 oratori aperti quotidianamente. Gli avvenimenti, soprattutto gli ultimi, riguardano pochissime unità che si contano sulle dita di una mano. Inoltre, mi sento di dire sempre ad onor del vero, che non sia questa nemmeno una novità assoluta dovuta ai tempi che cambiano, perché già in passato è capitato che si dovesse arrivare a chiudere i cancelli dell'oratorio. Premessa che non vuole minimizzare la questione, ma ricollocarla con maggiore verità e oggettività.

Ma torniamo alla domanda: gli oratori sono dunque un luogo sicuro? Con convinzione rispondo: “Assolutamente sì”.  Anzi, proprio queste notizie che riportano questi ultimi avvenimenti me lo confermano ulteriormente. Cerco di spiegarmi. I ragazzi che frequentano l'oratorio sono gli stessi che frequentano ogni luogo aggregativo e sociale dei nostri territori: sono gli stessi che frequentano i parchi, le piazze, i cinema, i bar, le discoteche e tutti i luoghi di aggregazione. L'oratorio, però, ha qualcosa in più. Quel qualcosa in più è che l’oratorio è un luogo presidiato. C'è un presidio educativo: può essere la figura del direttore dell’oratorio -ovvero del curato- oppure del parroco, là dove il curato non c’è. E anche laddove una di queste due figure non riesca ad essere sempre presente, c’è sempre qualche adulto della comunità. Basti pensare ai baristi, ai numerosi volontari che lo abitano e lo tengono in ordine. Sono sempre di più, inoltre, le parrocchie che investono scegliendo di mettere in oratorio degli educatori di cortile, cioè figure professionali retribuite che si prendono cura di bambini, preadolescenti e adolescenti nell’informalità o in attività strutturate presidiando anche gli spazi. 

Sono queste figure adulte a fare la differenza nella questione: queste persone sono gli occhi della comunità che accolgono e osservano i ragazzi che frequentano abitualmente l’oratorio. Quando i ragazzi hanno dei comportamenti problematici o delle dinamiche relazionali scorrette, sono coloro che se ne accorgono. E intervengono. Ecco perché emergono le questioni in oratorio, perché c'è qualcuno che le nota e le affronta. E non fa finta di nulla. C’è qualcuno che si fa carico di un pezzo della crescita dei ragazzi intervenendo educativamente. E l'intervento educativo, a volte, deve essere anche contenitivo. Mai punitivo fine a sé stesso, ma dove trova una valenza educativa si avvale anche della punizione. Tra queste ci vedo anche la scelta di chiudere i cancelli. Significa  che, educativamente, stiamo ponendo un limite (altro concetto oggi troppo dimenticato dalla pedagogia pratica): ciò che hai fatto o detto ha superato un limite. Quello del rispetto delle regole della convivenza serena e pacifica, scritte o non scritte. Un limite che, ne sono certo, è stato prima spiegato, poi richiamato, e infine imposto. La scelta della chiusura è nata ovviamente dopo diversi richiami, discorsi, prediche. Scegliere di chiudere è l’ultimo tentativo per far comprendere a chi ha sbagliato che le azioni che si compiono hanno una conseguenza. È rimandare alle giovani generazioni la responsabilità dei loro gesti e delle loro scelte. È un rimando che ricade anche sugli altri (che colpa non ne hanno), perché ogni nostra azione ha una valenza sociale. Altra attenzione evaporata cui è oggi più che mai necessario educare le giovani generazioni. E uno dei rimandi può essere, come in questo caso, quello della privazione di uno spazio, di un tempo, di una possibilità di gioco, incontro e aggregazione. Il tempo della privazione è occasione per riscoprire il valore di ciò che ci è stato tolto. Per tornare a usufruirne meglio. Come una mamma che toglie il cellulare al figlio che non rispetta i tempi di utilizzo stabiliti, non perché desidera che il figlio non comunichi più, ma perché vuole che impari a comunicare meglio.

Ecco che allora quella porta chiusa è un grande segno. È un segno che diamo anzitutto a chi ha sbagliato. Non vale più la presunzione del “tanto è uguale”. L’idea di impunità è l’anticamera della delinquenza. Ciò che ciascuno fa, ha delle conseguenze a cui si è chiamati a rispondere, ad assumersene la responsabilità. In secondo luogo, è un segno per la comunità tutta, che ci sono delle questioni che non possiamo far finta di non vedere o davanti alle quali possiamo voltare lo sguardo dall’altra parte pensando che “ci penserà qualcuno”. Questo è un segno forte che ce lo fa notare: non possiamo lasciarle scorrere sul piano inclinato dell'indifferenza. Infine, è un tempo che la comunità si dà. Quel portone, quel cancello chiude sì, ma per poi riaprire. E riaprire meglio. Il tempo della chiusura è il tempo della riflessione perché, quando quel cancello riaprirà, ci sarà qualcosa di cambiato. L’augurio è che siano cambiati i ragazzi stessi, che non verranno espulsi a vita, ma saranno chiamati a tornare trasformati da questo periodo di chiusura. Anche la comunità è chiamata a cambiare, ad arrivare più pronta e con gli strumenti educativi affinati per tornare ad offrire quello spazio a tutti, nessuno escluso. Che questo sia un tempo per riflettere, per guardare a questi ragazzi non come dei “cattivi ragazzi”, ma come portatori di una difficoltà o di una sofferenza da accogliere e non ripudiare, portatori di quella sfida educativa per cui gli oratori sono nati e continuano ad essere fondamentali. Come possiamo educare al meglio le giovani generazioni? Insieme: i ragazzi sono di tutti. A scendere in campo per la loro educazione è l’oratorio -con i sacerdoti, gli educatori e i volontari- ma anche tutte le altre agenzie educative del territorio. In rete. Ce ne dobbiamo prendere cura insieme perché “per crescere un cucciolo di uomo serve un intero villaggio” recita un proverbio africano a me molto caro.

In conclusione dunque, questo segno forte della chiusura di alcun oratori esasperati, ci spinga tutti a riflettere sui problemi relazionali e comportamentali di tanti nostri ragazzi oggi, senza girarci dall’altra parte, e al tempo stesso ci faccia riconoscere come gli oratori, oggi più che mai, rappresentano un presidio educativo fondamentale, dove la comunità cristiana, e non solo, si prende cura delle giovani generazioni, con passione, tenacia e coraggio. Viva gli oratori, dunque, che ci aprono gli occhi, le menti …e il cuore!
Don Gabriele Bonzi
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